Caporalato nel lodigiano: intervista a Marco Omizzolo
Sono 1.054 posizioni lavorative irregolari, con un’evasione contributiva e fiscale stimata in circa 3 milioni di euro sono i primi dati che emergono dall’inchiesta delle Procura di Lodi sul caso di caporalato nelle nostre campagne lodigiane.
A Lodi – grazie al progetto CASOMAI, di cui Caritas è parte – avevamo avuto modo di approfondire argomenti quali il caporalato, lo sfruttamento lavorativo e le agromafie grazie a Marco Omizzolo (sociologo, ricercatore Eurispes e docente di sociopolitologia delle migrazioni a Scienze Politiche alla Sapienza). Abbiamo quindi colto l’occasione per tornare a chiedergli alcuni chiarimenti circa quello che sta succedendo nel lodigiano.
Sei venuto a Lodi giusto qualche mese fa proprio per presentare il tuo libro “Per motivi di giustizia”. Erano i giorni del caso Satnam Singh. Cosa emerge dalle prime notizie sul caso lodigiano?
Quanto si apprende dall’inchiesta di Lodi mette in luce in maniera chiara il superamento definitivo di ogni divisione geografica – con riferimento al caporalato e allo sfruttamento – che fino a qualche anno fa veniva operata in questo paese: per cui sembrava che questo fenomeno rappresentasse soltanto un’economia arretrata, periferica e soltanto alcune aree del meridione. Per l’ennesima volta, grazie all’attività investigatrice delle forze dell’ordine e all’attenzione della Procura, rileviamo come anche nelle aree più ricche d’Italia e d’Europa lo sfruttamento si è divenuto sistemico. Nei numeri, a Lodi parliamo di circa 1000 lavoratori, nelle forme dello sfruttamento, un impiego irregolare, spesso particolarmente grave, nella condizione abitativa, forme di disagio abitativo particolarmente brutali, al fine, e questo per me è molto importante per determinare due conseguenze: un arricchimento economico, ma nel contempo facendo leva sullo stato di bisogni delle persone, un potere su le stesse, un potere che arriva a condizionarne l’esistenza e a violarne la dignità umana. Questo sta a significare che in tutta Italia si deve fare un passo in avanti, sia dal punto di vista investigativo, sia dal punto di vista sindacale e anche da parte della società civile, perché questo fenomeno odioso e pericolosissimo possa essere definitivamente debellato. Vale in Sicilia, vale in Lombardia, vale in Veneto, vale in Emilia Romagna e per quanto mi riguarda vale anche in molte altre aree europee.
Anche nel lodigiano secondo te – come emerge dai tuoi studi in provincia di Latina – ci potrebbe essere un sistema che coinvolge anche attori dell’amministrazione pubblica?
E’ molto probabile – non abbiamo elementi certi in questo senso – che per le dimensioni dello sfruttamento, per come sono state rilevate dalla Procura, per il tempo in cui questo sfruttamento è stato condotto, per le forme gravi di disagio, vi siano delle complicità che vanno oltre la dimensione del puro caporale o del solo imprenditore. Io penso – e dai miei studi questo sistematicamente si rileva – che queste forme di sfruttamento non possono organizzarsi solo con l’attività criminale dell’imprenditore o del caporale, ma necessariamente attraverso la collaborazione di altri soggetti, spesso si tratta di liberi professionisti, in altri casi si tratta anche di esponenti della pubblica amministrazione, di coloro che rilasciano autorizzazioni, concessioni, di coloro che hanno il compito di controllare preventivamente e non lo fanno. Vi è un mondo ampio di professionisti, di cittadini che pur sapendo non intervengono con la denuncia – facendo così correttamente il proprio dovere -, in alcuni casi anche per via di attività di corruzione piuttosto evidenti, come molte indagini e molte sentenze ormai riconoscono. Quindi è importante ancora una volta uscire dalla dimensione strettamente sindacale dello sfruttamento. Lo sfruttamento, il caporalato e quello che io ritengo essere l’elemento centrale, il padronato, bisogna collocarli in una dimensione sociale, non più soltanto sindacale. Non è più soltanto un problema di contratto di lavoro, ma di forme dell’esistenza e di relazioni verticali tra chi comanda e chi deve obbedire.
Si parla ancora di sfruttamento in agricoltura, pensi sia il solo settore interessato? Il lodigiano è territorio di logistiche..
Per quanto riguarda i settori bisogna specificare che il caporalato, lo sfruttamento ovviamente non lo intercettiamo soltanto nel settore primario, nell’agricoltura, ma è presente anche in molti altri settori: nella logistica, nella grande distribuzione, nel badantato domestico, tra i rider, in edilizia, è un fenomeno anche in questo senso sistemico che non può essere come dire localizzato, delocalizzato soltanto all’interno di un unico settore produttivo. Anche da questo punto di vista bisogna fare lo sforzo di allargare l’attività di indagine, ma anche di inchiesta giornalistica e di inchiesta sociale in altri settori. È fondamentale perché noi siamo dentro una società molto più ampia rispetto a quella confinata nei soli limiti delle nostre frontiere. E la nostra economia è una economia globale che intercetta flussi migratori provenienti da molte aree del mondo. Per questa ragione l’invito fondamentale è quello di osservare con attenzione chi taglia le siepi nei giardini pubblici, chi costruisce le nostre case, chi ci porta la pizza davanti casa, chi realizza le nostre magliette, chi fa d’assistenza ai nostri anziani o ai disabili, perché lì spesso si annidano forme molto gravi di sfruttamento e di umiliazione della dignità umana.
Si legge che gli investigatori sono andati a ritroso fino al 2017, fin dove cioè si poteva indagare, secondo i termini previsti per legge. Per chiarezza di quale legge si sta parlando?
Dunque bisogna distinguere la legge di riferimento della 199 del 2016, la legge che nasce in seguito alla morte drammatica di Paolo Clemente nel 2015 allo sciopero organizzato proprio in provincia di Latina, dal sottoscritto e dalla cooperativa in migrazione con la comunità indiana dei braccianti Sikh, in 5 mila scesero in piazza per chiedere una legge migliore contro lo sfruttamento e migliori condizioni di vita, di lavoro e di abitazione. Quindi la 199 da questo punto di vista è una legge fondamentale anche perché finalmente riconosce la responsabilità penale in capo al datore di lavoro e gli istituti del sequestro e della confisca dei beni utilizzati dal padrone nell’esercizio della sua attività criminale. E’ chiaro che l’attività di ricostruzione delle varie forme di sfruttamento, da intendere nella sua dimensione propriamente economica, possono andare al ritroso di 5 anni, ma nel momento in cui si rilevano dei caratteri penali, in questo caso il tempo di indagine è molto più lungo e molto più ampio. Quindi bisogna fare sempre dei distinguo, come dice Ciotti, distinguere per non confondere. In questo caso significa che insieme alla dimensione economica che va rilevata nei 5 anni precedenti, se vengono riscontrati rilievi penali, il tempo d’indagine è possibile sarebbe molto più lungo. In questo caso l’attività d’indagine è stata circoscritta sul piano economico ai soli 5 anni, ma come è evidente l’attività conseguente è stata di indirizzo penale, tant’è che hanno agito direttamente nei confronti del datore di lavoro attraverso la 199. Un consiglio che do a tutte le associazioni e alle organizzazioni del territorio è quello di seguire il processo per un verso, per esempio provando a costituirsi parte civile, o anche soltanto seguire il processo al fine di poterlo raccontare in maniera molto puntuale, ma nel contempo, ed è un invito che rivolgo anche alle istituzioni locali, seguire le persone che sono state sfruttate per sostenerle e farle uscire dalla condizione di ricattabilità e di vulnerabilità. Il punto non è soltanto arrestare il padrone, l’imprenditore criminale, ma togliere le persone da quella condizione sistemica di ricattabilità e di vulnerabilità che troppo spesso resta anche dopo che il datore di lavoro viene arrestato.
Proprio bei giorni in cui si discute di Ius Scholae il caso lodigiano riapre ancora una volta il tema della mano d’opera immigrata irregolare (e non) sfruttata, nelle medesime condizioni di lavoro (irregolare) così come in altre zone d’Italia..
Bisogna fare attenzione. Io sostengo – l’ho dichiarato mille volte in tutte le sedi – una riforma radicale dell’Istituto della cittadinanza ed è fondamentale anche in un’ottica di contrasto alle forme di segregazione, di emarginazione e quindi anche di sfruttamento delle persone, ma questo non è sufficiente. Lo sfruttamento è sistemico e deriva anche dai 40 anni di aggressione politico-normativa nei confronti dei diritti del lavoro. Abbiamo precarizzato il mercato del lavoro e abbiamo fatto saltare o non riformato adeguatamente il sistema di controlli. Questo ha prodotto una precarizzazione esistenziale, dentro la quale cadono in particolar modo i migranti, ma non soltanto. Faccio presente che su 450 mila persone che sono nel settore primario e vivono condizioni varie di sfruttamento lavorativo, circa il 20% sono italiani che prescindono dallo Ius Scholae, e che prescindono per esempio dalle leggi Bossi-Fini. Questo 20% che precipita in questa condizione sono la conseguenza di una precarietà che è divenuta esistenziale e che conduce queste stesse a vivere condizioni analoghe, non sempre simili, ma certamente a quella di lavoratori e lavoratrici immigrati gravemente sfruttati, quindi insieme a quelle riforme necessarie e indispensabili come il diritto alla cittadinanza e il superamento della Bossi-Fini; è fondamentale anche rimettere a mano al mercato del lavoro per superare qualunque forma di precarietà e di vulnerabilità indotta per volontà politica, perché tutte le donne e tutti gli uomini, a prescindere dalla propria nazionalità, ma proprio in quanto uomini e donne possano essere pari in dignità e in possibilità.
Intervista a cura di Luca Servidati – In Immigrazione