La fede nella tecnologia e il conto della natura

Pubblichiamo questo stimolante articolo di Ferdinando Boero, Zoologo, Federico II Napoli, Cnr e Szad, apparso su Il Fatto Quotidiano di martedì 2 aprile.

Nella porzione d’Africa dove abbiamo avuto origine, le condizioni climatiche ci permettono ancora di vivere seminudi. La natura, madre nei climi caldi, è per noi matrigna in quelli freddi, ma l’abbiamo addomesticata, colonizzando tutto il pianeta. Espandendoci, abbiamo affrontato climi ostili, ci siamo coperti di pelli, abbiamo imparato a accendere il fuoco per riscaldarci e cuocere il cibo, abitando prima grotte e capanne, e poi case in muratura. Il dominio sulla natura è stato esercitato tagliando le foreste per far posto a coltivazioni e pascoli, convogliando e raccogliendo l’acqua; la pesca artigianale è diventata industriale, così come l’allevamento del bestiame, per soddisfare le necessità di numeri sempre crescenti di umani. Negli ultimi duecento anni il progresso tecnologico ha migliorato e allungato l’esistenza di moltissimi umani che, oggi, hanno un tenore di vita superiore a quello dei monarchi di qualche secolo fa. I popoli emergenti mirano a vivere nelle nostre stesse condizioni. Ma, come insegna l’economia, non ci sono pasti gratuiti.

Userò la storia industriale di Taranto per riassumere la storia recente. Terreni dedicati ad agricoltura rurale furono concessi all’Italisider che vi costruì la più grande acciaieria d’Europa, dando lavoro migliaia di persone: un ascensore sociale potentissimo. Il benessere pervase territori prima avari, da cui i giovani emigravano: una benedizione. I fumi dell’acciaieria furono considerati un prezzo trascurabile, a fronte di innegabili benefici. Anno dopo anno, però, i tumori all’apparato respiratorio crebbero, prima tra gli operai, poi nelle loro famiglie e negli abitanti delle zone limitrofe all’acciaieria. Il benessere si pagava con la vita.

Se si chiudono o si ridimensionano sistemi malsani di produzione a Cornigliano, Piombino, Terni, Bagnoli, i paesi in via di sviluppo sono pronti a ospitarne altri: le industrie inquinanti, chiuse in Occidente, sono delocalizzate in Oriente, facendo gli stessi danni, prima all’ambiente e poi alla salute umana: non ci possono essere umani sani in ambienti malati. Il processo di delocalizzazione ha portato alla globalizzazione e ha presto esaurito gli “altrove” dove poter spostare l’inquinamento. I confini sono stati aboliti non solo per le produzioni e i consumi ma anche per gli inquinanti, che viaggiano sia in atmosfera sia nelle correnti marine, invadendo il pianeta da un polo all’altro.

Questa storia ci insegna che chi ha poco (i contadini diventati operai) non può permettersi il lusso di preoccuparsi dell’ambiente e vuole solo migliorare le proprie immediate condizioni di vita. Chi è rimasto contadino chiede di continuare ad avvelenare l’ambiente con i pesticidi. Che muoiano le api o gli orsi polari non interessa a chi fatica per tirare avanti. All’altro estremo, i ricchissimi che possiedono i sistemi di produzione non sono sensibili ai problemi ambientali: possono vivere in aree del globo con condizioni ottimali. Chi si trova in mezzo, non avendo problemi di sopravvivenza senza avere a disposizione ingenti ricchezze, spesso non ha le risorse intellettuali per collegare sviluppo economico a degrado ambientale; solo alcune frange hanno capito e chiedono sostenibilità. Si tratta di pochi individui, incompresi dai poveri, afflitti da problemi contingenti, e osteggiati da chi finalmente ha raggiunto un discreto benessere e non vuole rinunciarvi. I ricchissimi controllano i mezzi di informazione e direzionano l’opinione pubblica a loro favore, contro i suoi stessi interessi, tanto da far credere che ci siano poteri occulti che evidenziano problemi ambientali inesistenti. La legge sul Ripristino della Natura non è passata nel consiglio dell’Unione Europea: per i rappresentanti italiani è un prodotto del “fanatismo ultraecologista”. Morale: che il Green Deal si fotta! Continuiamo così! La maggioranza concorda e, in democrazia, vince.

In economia il valore delle cose si misura con la volontà di pagare per esse da parte di chi le vuole. Quanto siamo disposti a pagare per avere un ambiente sano? Chi non ha gran che non può pagare, chi ha molto paga andando dove le condizioni sono ancora buone, chi ha raggiunto il benessere non è disposto a pagare, non vuole diminuire il proprio tenore di vita in termini economici e non comprende il legame tra ambiente, economia e salute, proprio come gli operai delle acciaierie: mancano le risorse conoscitive per capire. Rimane una sparuta minoranza, di cui fa parte la comunità scientifica, osteggiata da tutti. Chi manifesta per la sostenibilità è perseguito con leggi draconiane, chi chiede pesticidi è soddisfatto dai legislatori. La natura, intanto, sta presentando il conto: il prezzo da pagare in termini di salute e di economia è altissimo.

Compromettere la qualità dell’ambiente a livello globale non conviene economicamente, socialmente, e sanitariamente, ma non siamo preparati a capirlo visto che, prima della globalizzazione, si poteva sempre spostare il problema da qualche altra parte, e pensiamo che sia ancora possibile. Purtroppo quei tempi sono finiti, ma non vogliamo accettarlo, neghiamo i problemi ed esprimiamo fede nel progresso tecnologico che, di sicuro, risolverà tutti i problemi senza nessuna rinuncia, come ha fatto fino ad ora. Bugie rassicuranti che continuano a far presa.

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