L’anno che vorrei. Di Carlo Petrini

Riportiamo questa stimolante riflessione di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sociologo e attivista.

Prima dell’avvento del Coronavirus noi (del cosiddetto “nord del mondo”) vivevamo nella sicurezza e presunzione di poter controllare il pianeta che ci ospita. Ma la crisi pandemica non è altro che la parte più visibile di una crisi sistemica molto più complessa. E anche un’occasione importante, forse l’ultima, per renderci conto che bisogna agire per limitare il nostro impatto.

Nel corso dell’ultimo secolo, non vi è stato nessun altro fenomeno su scala globale in grado di coinvolgere e stravolgere nel profondo l’umanità intera così come ha fatto il Covid-19. Prima dell’avvento del Coronavirus noi (del cosiddetto “nord del mondo”) vivevamo nella sicurezza e presunzione di poter controllare la Terra che ci ospita. Ora ci troviamo a brancolare in un mare di incertezze, interrogandoci su quali potrebbero essere gli scenari del futuro prossimo. E se la notizia confortante dell’imminente approvazione del vaccino, ci fa guardare a ciò che verrà con un briciolo di ottimismo, non possiamo però illuderci che una vaccinazione possa essere la panacea di tutti i nostri mali.

La crisi pandemica infatti, non è altro che la parte più visibile di una crisi sistemica molto più complessa. È un’occasione importante, forse l’ultima, per renderci conto che viviamo in una realtà dove nel bene o nel male, tutto è in relazione. La crisi sanitaria, climatica e quella economica-sociale non sono inscindibili, bensì sono manifestazioni diverse di un unico, comune mondo malato, il nostro. Se il vaccino ci porterà fuori dall’emergenza sanitaria, dalla nostra ci viene però richiesta lucidità, coraggio e impegno per affrontare seriamente le conseguenze delle altre crisi, iniziando da quella climatica. L’unica strada veramente percorribile per il futuro è infatti la conversione ecologica: curare la causa del malessere smettendo una volta per tutte di porre invano rimedio ai sintomi; assumendoci le dovute responsabilità nei confronti della casa comune. In un recente intervento alla Columbia University, anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ribadito questo concetto, sottolineando la necessità improrogabile di fare pace con la natura. Fino a quando ciò non avverrà, qualsiasi tentativo di porre fine a conflitti, instabilità sociali, diseguaglianze e altri problemi di natura sociale ed economica sarà vano.

A livello di governance internazionale, auspico quindi che l’accordo sul clima firmato a Parigi nel 2015, venga ripreso con forza e reso operativo al più presto. L’impegno di riduzione netta delle emissioni di gas serra, fino al raggiungimento della neutralità carbonica al 2050, deve diventare priorità di ogni azione politica a partire da subito (non possiamo aspettare altri rinvii). Questa necessità d’altronde è ben nota da alcuni decenni, ma nonostante la sincerità delle parole, nella pratica siamo molto lontani dai valori sperati. Oggi il parere scientifico è però univoco: se non agiamo subito, tutti e in sinergia, ci avvicineremo sempre più a un drammatico punto di non ritorno. Un mondo ostile, in cui le rinunce che saremo chiamati a fare e gli impatti sulle nostre vite saranno ben più tragici di quelli odierni.

E in questa profonda fase di trasformazione che ci attende, una delle leve strategiche su cui intervenire è il settore alimentare. Un ambito attualmente inefficiente non solo perché non in grado di sfamare la popolazione mondiale, ma anche perché nel suo agire sta nutrendo il cambiamento climatico, contribuendo a circa il 30% delle emissioni totali di gas serra. Ripartiamo dalla terra per ripercorrere l’intera filiera alimentare, e attraverso un coinvolgimento attivo di tutti i suoi attori, rendiamola virtuosa. Importanti sono le indicazioni politiche delle strategie per la biodiversità al 2030 e Farm to Fork (sul settore agroalimentare), lanciate a maggio 2020 dalla Commissione Europea. Linee guida che suggeriscono di dismettere il paradigma capitalistico che ha portato a pensare solo a quale sia il modo più produttivo e omologato per coltivare la terra. Questo è il momento di favorire tutte quelle pratiche rigenerative e biodiverse, che prelevano risorse dal suolo senza per questo depredarlo, e che fanno buon uso dell’acqua. Iniziamo a preoccuparci seriamente di come curare e custodire il nostro pianeta.

D’altronde, gli stravolgimenti di quest’ultimo anno, ci dovrebbero aver fatto capire che i meccanismi che governavano il mondo prima della pandemia erano profondamente sbagliati. Ora è tempo di disegnare il dopo, abbiamo una preziosa opportunità di cambiamento: a partire da un’attenta gestione del presente, possiamo essere gli artefici di un nuovo futuro. Nel fare ciò, a livello europeo, ci troviamo di fronte ad un’occasione unica anche in fatto di risorse economiche mobilitate: 1800 miliardi di euro destinati alla cosiddetta ripartenza. Una cifra da capogiro, che deve rappresentare il punto di svolta in cui l’economia non sarà più il fine ultimo da perseguire, bensì uno strumento attivatore di processi positivi volti alla promozione del bene comune.

Affinché ciò avvenga, siamo però tutti chiamati ad apportare il nostro contributo: è finito il tempo delle deleghe e degli individualismi, inizia quello della responsabilità e della solidarietà. Politica, economia e società civile devono imparare a camminare nella stessa direzione, generando relazioni capaci di costruire un domani migliore. Spero dunque che il 2021 non ci porti solo fuori dalla pandemia (anche se è la cosa più urgente che tutti ci auguriamo), ma anche ad affrontare la quotidianità con una decisa, coraggiosa e unanime volontà di cambiamento.

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