Una notte a pesca nel Golfo di Ulisse
Vi portiamo a bordo di una barca di pescatori che interpretano ancora le stelle e i movimenti della luna per una battuta “miracolosa”. E ci svelano una antica ricetta.
Un articolo di Annamaria Grasso, insegnante e storica dell’alimentazione siciliana
L’appuntamento è alle tre del mattino al Porto Ulisse di Ognina, borgo marinaro di Catania. Ci aspetta una di quelle esperienze che si ricordano poi per tutta la vita con la stessa emozione: un’escursione in mare nel Golfo di Catania con i pescatori della cooperativa di piccola pesca costiera etnea, ma sarebbe più corretto chiamarli “custodi” di questo tratto di mare della costa orientale della Sicilia che va da Nord a Capomulini a Sud fino a Capo Santa Croce.
E questa non è una semplice escursione di turisti frettolosi che si spostano velocemente (e distrattamente) da un posto all’altro con l’unica ansia di arrivare a destinazione.
È piuttosto un viaggio per conoscere, riflettere e ripercorrere il rapporto ancestrale che lega l’uomo all’immensa distesa salata del nostro mare: il Mediterraneo, un mare “in mezzo alle terre” che bagna 23 Stati ed è stato il crocevia di popoli, culture ed economie fino al declino, con la scoperta dell’America e l’apertura delle nuove vie di comunicazione transoceaniche.
Triste fine per quello che nel Medioevo aveva visto fiorire persino una vera e propria lingua del mare, il Sabir, mix di italiano, spagnolo, francese e arabo, condiviso da chi viveva del mare e sul mare per la pesca, i commerci, le guerre. È la prima di tante storie che ci racconta la nostra guida, Gaetano Urzì, per tutti noi Tano, un urbanista, un uomo di cultura, ma prima di tutto, da generazioni, un pescatore, mentre saliamo a bordo della sua motobarca per una battuta di pesca costiera, dunque a poche miglia dalla terraferma, quando manca poco più di un’ora all’alba.
Tano, e prima di lui suo padre, hanno fatto la storia della pesca in questo Golfo che a buon diritto può dirsi dell’Etna, perché sono state le colate laviche a deciderne la conformazione, “costruendo” le borgate marinare di Ognina, Acitrezza, Santa Maria la Scala, Pozzillo, Stazzo, Riposto, dove tuttora vivono le famiglie dei pescatori.
Mentre si naviga verso sud, Tano ci spiega che le tecniche utilizzate dai pescatori della piccola pesca costiera etnea sono ancora quelle antichissime, tradizionali, rispettose del mare e della biodiversità, faticose e purtroppo oggi abbandonate in nome di un modello capitalistico predominante.
Ma l’industrializzazione sta cancellando l’esistenza di centinaia e centinaia di specie ittiche utilizzando tecniche selvagge come quella delle reti a strascico che catturano indiscriminatamente e poi costringono i pescatori a rigettare in mare enormi quantità di pesce invendibile sui mercati perché di taglia (o di specie) vietata dalle leggi in vigore.
La distruzione del mare: questo sta succedendo e contro questo combattono una battaglia (impari) i pochi pescherecci, come quello di Tano, che continuano a praticare una pesca sostenibile con la menaide, in dialetto “magghia”, una rete utilizzata ormai quasi soltanto in questa zona (e da pochi) per la pesca delle masculine: una tecnica, lenta e affascinante, che non saccheggia il mare.
Mentre la barca fende lentamente le onde, notiamo che altre imbarcazioni non lontane dalla nostra cominciano a lampeggiare segnalando nel buio la loro presenza per mantenere la distanza l’una dall’altra mentre si calano le reti. È il momento (il più emozionante) in cui le barche si fermano e sembra fermarsi anche il tempo.
Restiamo – in balìa della corrente, dice Tano – in un silenzio carico di aspettativa: dall’esito della pescata dipende infatti l’economia familiare di questi artigiani che si ostinano a salvare il mare. Tano ricorda suo padre Carmelo che fino a 86 anni faceva questo mestiere e gli ha trasferito saperi fondamentali che non si trovano sui libri: “per fare una grande pescata di masculine – gli diceva sempre – è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto.
Tutte queste cose non s’imparano sui manuali ma ogni giorno o notte che sia, di anno in anno. Noi, piccoli pescatori costieri, ci costruiamo un libro della memoria che poi ci serve per il lavoro quotidiano e nel corso della vita”. Sta spuntando il sole all’orizzonte quando si tirano su le reti tessute dai pescatori (anche questo è un antico mestiere marinaro). Sono minuziosamente tarate in modo da imprigionare alle maglie solo le alici che hanno già concluso un ciclo di vita e si sono riprodotte, lasciando libere le più piccole che non vanno invece catturate.
Si comincia quindi a staccare dalle “magghie”, ad una ad una, le “masculine” che, procurandosi così un leggero dissanguamento, acquistano un gusto più dolce, una carne più chiara e più soda rispetto a quelle pescate con tecniche moderne. Caratteristiche organolettiche, queste, che hanno meritato la tutela e la valorizzazione di Slow Food con il Presidio della “Masculina da magghia” di cui Tano Urzì è referente per i produttori.
È un lavoro certosino perché quando la pescata è buona si può arrivare a staccare dalle maglie anche oltre un quintale di pesce, che verrà poi venduto fresco nei mercati o trasferito nei laboratori per la conservazione sotto sale nei caratteristici cugnetti di terracotta. È ormai mattina e abbiamo gli occhi (e il cuore) pieni di meraviglia e di rispetto per il lavoro di questa gente del mare.
Ma prima di rientrare in porto, la nostra guida ci regala un’ultima breve tappa poco più a nord di Ognina, ad Acitrezza, e una chicca: tra uno sguardo e un saluto a quei Faraglioni scagliati (forse!) da Polifemo contro Ulisse ci racconta di una ricetta, divenuta tipica di tutto il litorale, quella delle “Opi ‘cca nipitedda”, cioè boghe in umido con la nepitella, nata dall’incontro tra una pianta perenne ed erbacea, che cresce rigogliosa sui terreni rocciosi della nostra Isola e delle Eolie, e un pesce povero del nostro litorale, pescato qui alla luce delle lampare con un’altra tecnica sostenibile, quella delle reti dette ciancioli.
Piccoli grandi tesori di una cultura materiale che non merita certo di essere rottamata perché valorizza oggetti e strumenti delle attività produttive, specchio fedele della nostra quotidianità.